“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Così recita, sulla carta, l’art. 9 della Costituzione. Si parla di un patrimonio inteso non soltanto come bene nazionale, ma anche come ricchezza di ogni singolo cittadino che, per questo, deve essere preservato, protetto e reso adeguatamente fruibile.
Se cinema, arte e paesaggio sono i fiori all’occhiello del patrimonio culturale italiano, lo stato in cui versa Villa C. è una metafora drammatica della perdita della nostra identità. Disinteresse e speculazione hanno fatto sì che perdesse il suo splendore originario, lasciando il posto a un vuoto scheletro.
La fama di Villa C. si perde nel tempo: nel corso dei secoli fu residenza di papi, cardinali e condottieri e meta prediletta dei paesaggisti del Grand Tour, che l’hanno immortalata in celebri vedute.
A farle da cornice, una distesa di pascoli e coltivazioni, delimitata da un massiccio muro di cinta interrotto da quattro monumentali portali. In posizione decentrata all’interno del perimetro vi sono le strutture “secondarie” di Villa C: il casino, la rimessa, le stalle, le scuderie, le residenze del personale di servizio e una chiesa chiesetta circolare rimasta incompiuta. Stando alle fonti, pare che in origine esistessero ben sette chiesette all’interno del parco. Un numero non casuale, pensato per riprodurre, in piccolo, l’itinerario per le indulgenze che i pellegrini compivano nelle sette chiese di Roma.
Fatta realizzare dai Farnese sul finire del Cinquecento, su progetto di un allievo del Bernini, la residenza extraurbana arrivò ad assumere la sua attuale conformazione gradualmente, tramite ampliamenti e aggiustamenti avvenuti nel corso dei secoli. L’ultimo, massiccio, intervento si verificò nei primi decenni del Settecento, su volere del pontefice dell’epoca, che qui vi soggiornò diversi giorni.
La famiglia romana ne fu effettiva proprietaria per ben tre secoli e divenne il fulcro di una grande tenuta con coltivazioni da frutto, vigneti e animali da allevamento. Dopo la sua estinzione, ospitò altre rinomate casate patrizie, fino ad accogliere un battaglione militare nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Al termine del conflitto, un noto produttore cinematografico decise di acquistarla e salvarla dall’oblio, seppur apportandovi pesanti rimaneggiamenti. All’esorbitante costo d’acquisto dovette aggiungersi quello della ristrutturazione, quasi superiore. Venne dotata di cinema, sala di registrazione e divenne essa stessa un set cinematografico come location di pellicole italiane.
Per un breve periodo la villa riconquistò i fasti di un tempo, ospitando celebrità del cinema italiano e straniero in un’atmosfera che non aveva nulla da invidiare alla Dolce Vita della capitale. Divenne un importante salotto culturale: Sordi e Monicelli sono soltanto alcuni dei nomi che l’hanno consegnata alla storia del cinema.
Ma questa ritrovata vitalità fu una fugace parentesi per Villa C. La sola manutenzione della struttura costava un patrimonio, cosa insostenibile per le finanze in crisi del produttore. Senza contare che la distanza da Roma lo tagliava fuori dal centro della vita intellettuale. Così, negli anni Settanta se ne stancò definitivamente e partì per gli Stati Uniti, lasciandola preda di sciacalli.
Da quel momento, la villa passò repentinamente di società in società, con l’unico scopo di trarvi profitto senza considerarne il valore artistico-culturale, tanto da spoliarla di ogni arredo e abbellimento. L’attuale proprietà, nonostante le promesse di un recupero in chiave turistica, non sembra interessata ad una riqualificazione effettiva.
Da qui il penoso degrado in cui oggi versa: finestre sfondate, decorazioni architettoniche cadute, alberi morti o abbattuti. Un affresco al piano di rappresentanza la raffigura al massimo dello splendore, immersa nel verde rigoglioso di una campagna bucolica. Un’immagine che si perde nei secoli e che sembra ancora più lontana camminando tra le vuote stanze della villa.