Roma, nord est. Qui passano in pochi nonostante la vicina riserva naturale della Marcigliana, una distesa di quattromila ettari di terreno, prometta più di un motivo naturalistico e archeologico per essere visitata.
E’ una mattinata cristallina dalle temperature artiche quando decidiamo di trascorrere tranquilla una gita fuori porta tra le mura diroccate e maledette del manicomio della Marcigliana.
L’imponente e sinistro edificio si trova sul finire di una stretta stradina sterrata che costeggia la Marcigliana, immerso in una lussureggiante ed incolta vegetazione che rende l’atmosfera ancora più spettrale. Il posto è abbastanza frequentato essendo ormai una meta di pellegrinaggio per fotografi, ghost hunters, giocatori di soft air, writers, amanti dell’occulto e del paranormale e satanisti improvvisati.
Sulla storia del manicomio della Marcigliana le fonti certe scarseggiano, mentre non mancano voci e leggende metropolitane. Quella che gli attribuisce la funzione di manicomio è senz’altro quella più nota e suggestiva, ma deve la sua fama ad un film del 1977, “La banda del gobbo” (di Umberto Lenzi), in cui il protagonista, Tomas Milian, viene rinchiuso in questa struttura adibita ad ospedale psichiatrico. Sempre nel 1977 torna ad essere un set cinematografico, stavolta nella sua veste di istituto per anziani, con il film “I nuovi Mostri” (di Risi, Monicelli e Scala), quando Alberto Sordi lascia l’anziana madre proprio all’ospizio della Marcigliana.
Sappiamo per certo che il complesso di Santa Maria della Pietà (da non confondere con l’ex manicomio provinciale di Monte Mario) nacque nel 1933 come orfanotrofio femminile gestito dalle suore della Carità, grazie all’intervento dell’allora Senatore della Repubblica Carlo Scotti (1863-1940). Negli anni ’70 fu riconvertito in istituto geriatrico e sicuramente funzionò sino alla fine del decennio, ma non si sa nulla di certo sul suo abbandono.
C’è stato un interesse per il recupero del manicomio della Marcigliana, in occasione del Giubileo del 2000, con l’idea di trasformare l’edificio in un ostello per la gioventù, che si è risolto in un nulla di fatto. Molte sono state le richieste al comune di fondi da parte della ASL, proprietaria dello stabile, che hanno portato allo stanziamento di 40 milioni di euro, insufficienti sia per la ristrutturazione che per l’abbattimento e smaltimento, che ammonta circa a 250 milioni di euro.
L’edificio, ridotto quasi ad un rudere, si articola in cinque piani di duecento metri quadri, oltre ad un’immensa terrazza. Le finestre ad arco, di cui non resta che lo scheletro, danno sul cortile interno, dove supponiamo ci fosse un curato giardino che oggi lascia il posto ad un mucchio di detriti e sudiciume a raccontare la recente storia di degrado.
Abbandonato, depredato e aggredito dal verde, il “manicomio” è estremamente precario nella sua imponenza e sembra essere sul punto di cadere come un fragile castello di carte. Le condizioni al limite di sicurezza impongono molta prudenza; scale pericolanti senza ringhiere, voragini nel pavimento, assenza di parapetti alle finestre non lo rendono un luogo molto accogliente. Per cui se non volete finire sui notiziari per l’ennesima morte da selfie controllate prima dove mettere i piedi!
Gli enormi spazi, accentuati dalla mancanza di porte e muri ridotti a cumuli di macerie, suscitano un senso di vuoto a dir poco angosciante. Una schiera di creature antropomorfe, che non sfigurerebbe in un bestiario medievale, ci accompagna da una stanza all’altra tra graffiti, poesie, dediche romantiche e coloratissimi murales artistici che spezzano il grigiore delle poche mura spoglie ancora rimaste in piedi. Squarci bucolici sulla campagna romana allentano la tensione trasmessa dal luogo.
Un’ultima, precaria, rampa di scalini conduce al terrazzo; la vera sorpresa del “manicomio”. Se non soffrite l’altezza merita la visita anche solo per la vista sulla campagna circostante. Qui gli artisti si sono sbizzarriti ed è un trionfo di figure e colori che lascia a bocca aperta.
E’ possibile ancora intuire la destinazione d’uso delle stanze dalle scritte sovrastanti le porte, o da qualche sporadico indizio che è riuscito a sopravvivere al passare del tempo e all’incuria umana. Non fatevi impressionare dalle scritte nella cosiddetta “stanza dei bimbi” (“Perché non mi fanno uscire? Mamma dove sei? Perché m’hanno punito?”), sono invenzioni contemporanee ma di sicuro effetto.
Altra stanza perfettamente riconoscibile dalle decorazioni pavimentali è la cappella al piano terra, tristemente nota alle cronache quale teatro di rituali non proprio ortodossi. Candele, croci rovesciate, invocazioni al demonio e un altare rudimentale ricostruito proprio dove sorgeva il precedente, la rendono il set perfetto per messe nere e trasgressioni di ogni tipo. Ed è proprio la fama sinistra del luogo ad avergli fatto conquistare più volta un posto di rilievo nelle pagine di cronaca dei giornali locali, in seguito ad episodi di sacrifici e riti satanici.
Al di là di tutte le storie, le voci, le mezze verità e gli articoli che si sono scritti, resta anche la grande desolazione per così tanto spazio immerso nel verde lasciato a sé stesso.