Da piccolo negozio di provincia a impianto di punta di un’intera regione, quella dell’ex saponificio di Ceccano è la storia di un’Italia industriale ormai superata dai progressi della tecnologia.
Agli inizi del Novecento era una piccola attività artigiana dedita alla produzione di saponi ricavati dal grasso di maiale. Un prodotto che era richiestissimo dalle massaie che a quei tempi lavavano i panni nelle vasche dei lavatoi pubblici.
Con l’ampliamento della produzione, l’azienda si trasferisce nell’attuale zona che ospita gli impianti produttivi: un’area ampissima e strategicamente posizionata tra una ferrovia e un importante fiume del basso Lazio. Le vendite conoscono una crescita vertiginosa fino alla seconda guerra mondiale, soprattutto grazie alla vocazione imprenditoriale e alle intuizioni di marketing del suo fondatore. È durante il Ventennio che viene coniato il “logo” che accompagnerà fino ad oggi i prodotti Scala.
Anche se gravemente danneggiato dai bombardamenti bellici, l’impianto riprende l’attività di produzione di un prodotto di prima necessità per la popolazione, e che all’epoca quasi non conosceva concorrenza: si pensi che 1/3 della produzione nazionale di sapone proveniva da questa fabbrica.
Ma la storia del saponificio di Ceccano non è stata sempre in discesa. Il periodo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, è segnato da scioperi turbolenti, seguiti dall’ingresso delle organizzazioni sindacali nella fabbrica. Molti gli operai che abbandonano le postazioni di lavoro per scendere in strada a chiedere contratti regolari e premi di produzione. Nonostante la protesta pacifica, l’intervento armato delle forze dell’ordine, porta alla morte accidentale di un giovane ragazzo e al ferimento di altri dieci operai.
In epoca moderna, il superamento della saponetta in favore del detersivo liquido e in polvere, porta ad una netta contrazione delle vendite. Se durante il boom economico l’azienda poteva contare su 1.000 operai, ora a malapena ne riesce a sfamare 132. Troppi gli investimenti necessari per riconvertire gli impianti e, con una produzione ormai inadatta alle esigenze di mercato, la dirigenza è costretta a dichiarare fallimento nel 1999.
In perenne attesa di interventi di bonifica che possano risanare la fragile situazione ecologica di questa zona, gli immensi fabbricati in vetrocemento ancora custodiscono alcuni macchinari, veri e propri monumenti di archeologia industriale.