L’ex lanificio Carotti prende il posto della cartiera che occupava quelle strutture e che, come il vicino mulino, si serviva dell’energia elettrica del Metauro.
La data di fondazione del lanificio Carotti è incerta, ma le fonti la citano già nel 1411, quando i Montefeltro danno in gestione l’opificio a tre cartari di Fabriano, città dove la fabbricazione della carta era già in pieno sviluppo.
Divenne presto l’industria più importante della città, producendo carta per secoli, fin quando la scarsa manutenzione dovuta alla conduzione indiretta e il mancato rinnovo della macchine, portarono la cartiera verso un’inesorabile crisi, che divenne definitiva nel 1870, quando l’opificio fu venduto.
Nel 1914 la fabbrica passò nelle mani della famiglia Carotti che la trasformò in filanda da seta e lanificio sfruttando l’energia idrica garantita dal Metauro. Mentre al primo piano si cardava, filava e torceva la lana, e il secondo era adibito a magazzino e tessitura, al piano terra c’erano due turbine idrauliche che garantivano l’elettricità.
E’ il periodo d’oro dello stabilimento che, partito con pochi operai, nel 1919 ne contava già cento. Nel 1946 il numero degli addetti raggiunse il livello più alto, con oltre 230 operai e, nello stesso anno, la fabbrica venne ammodernata e ampliata grazie alla realizzazione di un nuovo reparto di tessitura sulla sponda sinistra del fiume Metauro, terminato nel febbraio del 1947.
Fu la prima centrale della Provincia ad essere attivata dagli alleati: due ore per la macinatura del grano per la popolazione, mentre per il restante periodo della giornata era utilizzata per esigenze militari.
Durante la ritirata tedesca della seconda guerra mondiale lo stabilimento, che lavorava per le forze armate, fu minato dai genieri tedeschi; il coraggio dei proprietari e di alcuni loro operai permise il salvataggio della centrale e del relativo locale macchina, i cui ingressi furono nascosti con un muro a tre teste, il cui intonaco era ancora fresco quando vennero i soldati tedeschi per compiere l’opera di distruzione.
La fabbrica continuò a produrre a pieno regime fino alla fine degli anni ’80, tanto da far guadagnare a Fermignano l’appellativo di “piccola Milano delle Marche“.
Abbandonata sul finire degli anni ’80 a causa della diminuzione degli ordini, è ora pesantemente compromessa dopo i crolli della nevicata del 2012 che hanno fatto cedere il tetto.
Uno dei tanti progetti di riqualificazione urbanistica dell’area, mai attuato, prevedeva la conversione dello stabile ad area polifunzionale.
Ancora oggi, ridotta allo stato di rudere, è il simbolo di quella Fermignano che ha saputo evolversi nel tempo e diventare da piccolo centro di campagna il terzo polo industriale della provincia di Pesaro-Urbino.