In pochi sanno dell’esistenza, a poco più di un’ora da Roma, di un luogo della memoria dimenticato dalla storia e dalle coscienze. Ad Alatri, in località Fraschette, una conca disabitata circondata dai monti custodisce quello che a lungo è stato un segreto anche per gli storici: il campo di internamento “Le Fraschette”.
La località rispondeva al criterio di impianto di un campo di internamento perché ben lontano da centri abitati e da vie di comunicazione, di difficile evasione e contemporaneamente di facile sorveglianza. Progettato nell’aprile del 1941 per ospitare 7.000 prigionieri di guerra, accolse inizialmente 780 persone di origine anglo-maltese. Tuttavia, dato il problema impellente degli sfollati, il Ministero degli Interni decise presto di destinarlo ad un nuovo uso: campo di internamento per migliaia di slavi che venivano deportati per rappresaglia contro l’attività partigiana. Morì, in percentuale, il 95% di internati slavi, quasi ogni giorno, dai due mesi di età agli 89 anni.
Gli internati erano civili, familiari di “ribelli” slavi, tenuti in ostaggio per convincere i partigiani a rinunciare alle loro attività in cambio del ritorno a casa degli internati. Anche i greci e le altre popolazioni direttamente in guerra con l’Italia subirono la stessa sorte. Vi finirono quindi uomini e donne; bambini e vecchi; persone sane, ammalati e tarati; famiglie organiche, numerose, e persone sole di ambo i sessi, fino a raggiungere le 5.500 unità all’inizio del 1943.
Le situazioni igieniche erano pessime, in parte legate al sovraffollamento, in parte legate alla precarietà della struttura costruita in grande fretta; anche le autorità civili e militari che gestivano le 174 baracche si macchiarono di furti ed abusi sugli internati. Su questa situazione critica intervenne anche monsignor Edoardo Facchini, vescovo di Alatri, che si prese a cuore la sorte dei prigionieri, in particolare delle molte donne e bambini che erano ospitati alle Fraschette.
Dopo il 1944 il campo di internamento Le Fraschette ospitò prima prigionieri tedeschi e poi profughi italiani di Istria, Dalmazia ed Africa e, successivamente i profughi in fuga dai regimi comunisti, di nazionalità soprattutto ungherese. Ospiti celebri delle Fraschette in questo periodo furono il calciatore László Kubala, il quale riuniva i calciatori profughi ungheresi in Italia e organizzava amichevoli di vario livello, e lo sportivo Isidoro Marsan.
E’ negli anni ’60 che inizia la terza e ultima fase della storia del campo di internamento Le Fraschette quando, gli italiani residenti nelle colonie furono costretti ad abbandonarle in seguito ai decreti di espulsione degli immigrati europei. Gli italiani delle colonie furono sottoposti a inutili vessazioni e costretti a lasciare il paese, ormai nemico, entro il 15 ottobre del 1970. Fu in questo periodo che il campo delle Fraschette entrò nella sua terza fase. I capannoni furono ristrutturati e resi più fruibili, pronti a ospitare gli italiani che vennero rimpatriati a ondate e per un decennio almeno. A partire dai primi anni ’70 il campo va gradualmente spopolandosi.
Delle strutture originarie (la cappella, la biblioteca, le cucine, i padiglioni degli internati, l’ufficio postale, le infermerie e addirittura la piscina), oggi non restano che sporadici ruderi: qualche capannone semidiroccato che sta resistendo con grande fatica alle intemperie e alla neve che, spesso e volentieri, imbianca queste zone della Ciociaria in inverno.
Aggiriamo il muro di cinta riuscendo ad entrare da un varco secondario, La prima cosa in cui ci imbattiamo è la chiesetta diroccata, cui fanno da cornice le splendide montagne imbiancate dalle recenti nevicate. Qui gli internati seguivano la messa ed i (tantissimi) bambini ricevevano la prima comunione. L’aspetto religioso di questo campo di Alatri non è certo da sottovalutare: quello delle Fraschette, oltre ad essere l’unico dei duecento lager italiani fatti costruire dal fascismo ad essere rimasto parzialmente in piedi, è anche l’unico campo di internamento in Italia ad aver avuto l’assistenza di un gruppo di suore, le “Giuseppine di Chambery” di Veroli, provincia di Frosinone.
Un’altra struttura perfettamente riconoscibile dalla croce rossa apposta sulla facciata è l’infermeria, del tutto inaccessibile per via dei rovi. A fianco è possibile inoltre scorgere ciò che resta di quella che forse era una cucina ma forse no, anche se la sua esistenza all’interno del campo è parecchio discussa. All’interno di questa desolazione resti di gomme di automobili, pezzi di vetro, bottiglie vuote ed altra immondizia. Non mancano le scritte dei vandali o di chi non si rende conto – si spera – di violare con la sua volgarità un luogo reso sacro dalla sofferenza.
Lasciato in stato d’abbandono da quasi quarant’anni, ultimamente le autorità comunali stanno tentando di recuperare le strutture fatiscenti per renderle fruibili ai turisti, anche se saranno necessari investimenti cospicui per salvare il salvabile. Conservare la memoria, anche del male, è un dovere perché coloro che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo.