Il lago rosso della riserva dimenticata

Un luogo misterioso e poco conosciuto, originato da fenomeni vulcanici attinenti al Vulcano Laziale. Si entra dentro un ambiente inconsueto, particolarissimo, quasi lunare. Un lago rossastro e un altro specchio d’acqua che sembra di ghiaccio.

Odore di zolfo ed acqua che ribolle, cristalli giallastri e fanghi bianchi, licheni ed erbe acquatiche, natura incontaminata e resti di antiche cave e miniere: questo è la solfata di Pomezia.

La casuale scoperta su Google Maps ci lascia piuttosto incredule. La zona, facente parte della Riserva Naturale di Malafede, è lasciata a sé stessa, senza un minimo di tutela e priva di un accenno di indicazioni. Fortunatamente è un posto piuttosto intuitivo, basta lasciarsi guidare dai nauseanti miasmi sulfurei per arrivare direttamente al fulcro dell’esplorazione: il lago rosso, tramandato da leggende orali come un luogo che conserva ancora tutta la sua aura di sacralità.

Sul fondo di una cava gigantesca, si apre lo spettacolo del lago rosso, il cui colore, determinato da particolari sostanze chimiche, è più o meno accentuato a seconda della stagione. Solo chi ha avuto la fortuna di vedere il lago Tovel in Trentino, potrà non stupirsi di fronte ad uno scenario simile. Queste acque immobili, immerse in una quiete indicibile, sono interrotte dagli scheletri arrugginiti di quel che resta degli antichi impianti estrattivi, che giacciono sulle sponde a memoria di una miniera in funzione fino ad epoca recente.

Ma questo lago non è l’unico gioeillino della solfatara. Immediatamente adiacenti, vi sono altri due laghi di proporzioni minori, che nell’antichità formavano con il primo un unico grande lago. Il lago bianco si staglia come un’immensa distesa lattiginosa puntellata da infiniti piccoli soffioni sulfurei, con le rive che sembrano imbiancate da una nevicata.

Per via delle particolarissime condizioni ambientali, intorno alle solfatare, sin dall’antichità, si è sviluppato un corpus di miti e leggende, e quella di Pomezia non fa eccezione. E’ proprio qui che geologia, storia e leggenda si fondono assumendo dei confini sfumati. La Grotta del Fauno, situata all’interno di una proprietà privata recintata, è un luogo che ancora oggi conserva ancora tutta la sua magia. La sua storia affonda le radici nell’Eneide: Virgilio narra che il re Latino si recasse nella grotta del padre Fauno, considerato il progenitore dei Latini, per consultarne l’oracolo, e ivi seppe che sua figlia Lavinia avrebbe sposato un eroe straniero (Enea). Proprio qui, tra le esalazioni sulfuree, i fedeli devoti al culto di Fauno, venivano a consultare la divinità portando animali in sacrificio. Per entrare in contatto con l’oracolo, era indispensabile osservare una particolare ritualità chiamata “oniromanzia”: gli adepti dovevano addormentarsi nell’antro della grotta, sul vello di una pecora sacrificata per tale scopo e, solo dopo essere caduti in un “sonno profondo”, ricevevano risposta in sogno direttamente dal dio alle loro domande. Non stentiamo a credere che questi sogni “divinatori” fossero indotti dall’aria mefitica e dalle emissioni tossiche del lago: tutta l’area è avvolta in un odore di uova marce insostenibile e, nei pressi dei laghetti ribollenti e maleodoranti, l’intensità delle emanazioni gassose è in effetti molto alta e pericolosa.

Tuttavia, vale la pena addentrarsi tra questi coloratissimi canyon per ammirare lo spettacolo delle formazioni sulfuree, della vegetazione insolita e soprattutto dei tre laghi, in un’atmosfera di silenzio irreale interrotta soltanto da centauri che utilizzano la zona come pista per il motocross.

Da un lato ci fa piacere che questo posto sia rimasto incontaminato anche dalle orde di turisti.

 

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