“Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva, e arriverò”.
C’è un cimitero dove riposano le speranze dei migranti che abbandonano le loro terre alla ricerca di un futuro migliore, ma che troppo spesso vanno incontro a vicende disperate che si concludono con morti disumane.
Non è un cimitero fatto di nomi e cognomi ma soltanto di numeri identificativi, incisi sul legno marcio dei tanti relitti di fortuna che da fari di salvezza sono spesso diventati trappole di morte.
Le imbarcazioni confiscate agli scafisti, perlopiù tunisini, sono piccole e traballanti, con un motore fuoribordo di 30-40 cavalli, tanto che molte sembrano più zattere che non barche vere e proprie. Più di cento quelle confiscante nel 2018 e accatastate come rifiuti indesiderati su uno splendido promontorio a ridosso della costa.
Un luogo funereo, testimone di una tragedia umanitaria mai sopita, dove si può toccare con mano l’emergenza delle persone che hanno sfidato il mare per la sopravvivenza. Quello stesso mare che, negli ultimi anni, è diventato un cimitero a cielo aperto. È difficile non commuoversi aggirandosi tra i vestiti e gli oggetti personali dei migranti. I gommoni e i giubbotti di salvataggio tutt’intorno, sono il triste epilogo delle tante vite spezzate.
Ma in molti nemmeno dopo la morte sono riusciti ad avere il riconoscimento di un nome. A poca distanza da una pittoresca caletta affollata di turisti, una fossa comune accoglie le loro spoglie. Una sola delle vittime del mare ha un nome: per gli altri solo un numero o la data della tragedia, incisi su una croce di legno e spesso erosi dall’aria salmastra.
Barchette di carta e bigliettini commossi accompagnano il loro ultimo viaggio. All’ingresso una targa, realizzata con lo stesso legno delle barche usate per le traversate, dedicata a tutti i popoli morti in mare alla ricerca della libertà.